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La politica estera di d’Annunzio a Fiume

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Esattamente 90 anni fa, le cannonate delle navi da guerra italiane congiunte all’attacco terrestre da parte del Regio Esercito, costringevano Gabriele d’Annunzio, Comandante di Fiume e vertice della Reggenza italiana del Carnaro, a por fine alla sua avventura irredentista e rivoluzionaria cominciata nella notte fra l’11 ed il 12 settembre 1919 alla testa dei suoi “Legionari”.

Per più di un anno il poeta abruzzese ed eroe di guerra capeggiò una sedizione nata in ambito militare, ma che seppe raccogliere sulle rive del Carnaro significative adesioni anche da parte di intellettuali, artisti, politici e sindacalisti non solo italiani. Partito sventolando la bandiera della “vittoria mutilata”, che privava l’Italia soprattutto in Dalmazia di quanto le spettava, il Vate si pose nettamente in contrasto con quanto si andava deliberando a Parigi in seno alla Conferenza della Pace, mettendo in serio imbarazzo pure il Governo italiano. Quest’ultimo cercò di sfruttare la situazione a suo vantaggio dietro le quinte, mantenendo i contatti con gli elementi più moderati dell’entourage dannunziano al fine di prendere contatto con i movimenti separatisti che cominciavano a prendere piede nel neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, soggetto geopolitico che minacciava l’egemonia italiana nell’Adriatico e che non era neppure previsto nel Patto di Londra del 24 aprile 1915, in base al quale i Savoia si erano decisi a entrare in guerra. Quel medesimo patto, però, non prevedeva neppure l’annessione di Fiume e solamente il sorgere nella città quarnerina di un Consiglio nazionale italiano al momento della dissoluzione austro-ungarica aveva offerto il destro alla diplomazia sabauda per avanzare nuove pretese. Il litorale adriatico diventava quindi luogo di contesa fra Roma e Belgrado: dall’avamposto fiumano si adoperavano per intessere contatti con i secessionisti jugoslavi personaggi come Giovanni Giuriati, interlocutore privilegiato di Pietro Badoglio (nel frattempo nominato Commissario Straordinario per la Venezia Giulia per tenere sotto controllo la sedizione fiumana), mentre in Dalmazia un Governatorato Militare italiano presidiava i territori che dovevano essere annessi in base al Patto di Londra e a Trieste i servizi segreti militari avevano nel tenente colonnello Cesare Finzi Pettorelli Lalatta il canale con cui tenersi in comunicazione con gli ambienti croati intenzionati a destabilizzare il regno dei Karageorgevic.

A queste manovre orchestrate di fatto da Roma si accompagnavano iniziative di politica internazionale partorite dall’estro dannunziano ovvero dalle proposte di alcuni suoi seguaci particolarmente audaci. Già a inizio ottobre del 1919 la Federazione della Gente del Mare, sigla sindacale capeggiata dal socialista Giuseppe Giulietti, dirottò sullo scalo fiumano la nave Persia con un grosso carico di armi destinato al porto di Vladivostok a beneficio delle Armate Bianche che ancora contrastavano l’Armata Rossa in Siberia. In una lettera rivolta all’inatteso ma graditissimo alleato, d’Annunzio spiegava che “la causa di Fiume non è la causa del suolo: è la causa dell’anima […]. Dall’indomabile Sinn Fein d’Irlanda alla bandiera rossa che in Egitto unisce la Mezzaluna e la Croce, tutte le insurrezioni dello spirito contro i divoratori di carne cruda sono per riaccendersi alle nostre faville che volano lontano”. Ancor più esplicito sarebbe stato il discorso del 24 ottobre seguente, Italia e vita, in cui si vaticinava che “gli insorti di tutte le stirpi si raccoglieranno sotto il nostro segno […]. È la nuova crociata di tutte le nazioni povere ed impoverite, la nuova crociata di tutti gli uomini poveri e liberi, contro le nazioni usurpatrici e accumulatrici d’ogni ricchezza, contro le razze da preda e contro la casta degli usurai che sfruttarono ieri la guerra per sfruttare oggi la pace, la crociata novissima ristabilirà quella giustizia vera da un maniaco gelido crocifissa con 14 chiodi spuntati [riferimento ai 14 punti del Presidente statunitense Woodrow Wilson, ndr]. La nostra causa è la più grande e la più bella che sia oggi opposta alla demenza e alla viltà di quel mondo. Essa si inarca dall’Irlanda all’Egitto, dalla Russia agli Stati Uniti, dalla Romania all’India. Essa raccoglie le stirpi bianche e le stirpi di colore; concilia il Vangelo e il Corano”. A rincarar la dose, Gran Bretagna, Stati Uniti d’America e la nascente Società delle Nazioni erano considerati “la punta di diamante della plutocrazia internazionale, di una civiltà borghese, avida e materialista, fondata sul denaro e sullo sfruttamento del lavoro, sull’oppressione dei popoli e delle loro aspirazioni di indipendenza, sul tradimento dei valori di eroismo e di spirito di sacrificio propri del movimento combattentista, alimentati ed esaltati dalla guerra”. Siffatte dichiarazioni ed in particolare i riferimenti alla Russia bolscevica risultavano sconvolgenti per le classi dirigenti fiumane, provenienti dalla borghesia irredentista locale, e per gli elementi maggiormente nazionalisti presenti nelle schiere dei Legionari, ma questo era ancora niente.

A dicembre d’Annunzio ed i suoi più scatenati seguaci ribaltarono gli esiti di un plebiscito cittadino che doveva valutare una proposta di accomodamento avanzata dal governo italiano, la quale prevedeva di integrare parzialmente il territorio fiumano nei confini del Regno sabaudo e rinunciava alla Dalmazia, laddove per il Comandante le due questioni erano inscindibili. In seguito a questo colpo di mano, salirono alla ribalta personaggi marcatamente di sinistra come il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris, già interventista e che di lì a poco avrebbe fornito i contributi maggiormente innovativi dal punto di vista sociale alla Carta del Carnaro, ma anche il letterato belga Leon Kochnitzky, il quale vedeva in Fiume il punto di partenza per una rivoluzione mondiale dei popoli sfruttati, ed il futurista Mario Carli, fondatore del giornale La testa di ferro. Dalle colonne di tale testata partirono svariati messaggi di solidarietà con la rivoluzione bolscevica, con la quale si rivendicava una sostanziale somiglianza poiché entrambe antiplutocratiche, antiliberali, guidate da leader carismatici come Lenin e d’Annunzio e nate dalla temperie bellica, come si poteva leggere nell’articolo Il nostro bolscevismo del 15 febbraio 1920: “tra Fiume e Mosca c’è forse un oceano di tenebre. Ma indiscutibilmente Fiume e Mosca sono due rive luminose. Bisogna, al più presto, gettare un ponte fra queste due rive”. Due personaggi particolarmente esuberanti della cerchia dannunziana, vale a dire l’aviatore Guido Keller e l’ardito Giovanni Comisso, animatori dell’effervescente Yoga. Unione di spiriti liberi, auspicavano la calata dei “barbari” bolscevichi al fine di distruggere la corrotta civiltà occidentale e consentire una rinascita spirituale, quasi ad anticipare le pagine del diario di Drieu La Rochelle datate dicembre 1942, in cui si sarebbe vista l’avanzata delle truppe di Stalin come lo strumento provvidenziale che avrebbe fatto repulisti in un’Europa marcia e decadente. Lenin stesso pare che seguì con interesse gli sviluppi della vicenda fiumana e Antonio Gramsci la vide come una rivolta nata sì in ambito nazionalista e militare, ma che nei suoi esiti andava di fatto a indebolire lo stato borghese italiano e quindi meritava attenzione. A partire dalla sezione triestina del Partito Socialista, però, gli appelli degli insorti fiumani a stringere un’alleanza per portare la rivoluzione in Italia caddero nel vuoto (eccezion fatta per Nicola Bombacci) e non si riuscirono quindi ad agganciare neppure relazioni stabili con Mosca.

La prima parte del 1920 fu impiegata dal cosiddetto Ufficio Relazioni Esteriori a raccogliere non solo dichiarazioni di solidarietà per la causa fiumana da parte di altri popoli sfruttati e oppressi, ma anche per organizzare movimenti insurrezionalisti. Una delegazione fiumana, che si recò a Parigi chiedendo di poter perorare la propria causa in seno ai lavori della Conferenza di pace, non venne neppure presa in considerazione e gli incontri con i delegati egiziano ed irlandese portarono in dote solamente attestazioni di solidarietà. A marzo Kochnitzky stilò l’elenco dei possibili partecipanti alla contro-Società delle Nazioni che almeno nei suoi piani stava prendendo corpo:

I – Rappresentati dei popoli oppressi: Fiume d’Italia, Isole, Dalmazia, Albania, Austria Tedesca, Montenegro, Croazia, Irredenti Tedeschi ora soggetti della Polonia, della Cecoslovacchi, della Francia, dell’Italia (con riserve: autonomia) e della pseudo-Lega delle Nazioni, Catalani, Maltesi, Gibilterra, Irlanda, Fiamminghi. Islam, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Siria, Palestina, Mesopotamia, India, Persia, Afghanistan. India, Birmania, Cina, Corea, Isole Filippine, Hawaii, Panama, Cuba, Portorico. Razze oppresse: Cinesi in California, Negri dell’America. Problema israelitico.

II – Rappresentanti dei Paesi lesi ingiustamente dalla Conferenza di Versailles: Russia, Rumenia, Belgio, Portogallo, Siam, Germania, Bulgaria, Turchia, Santa Sede. Delegazioni di partiti e di gruppi solidali col “Fiumanesimo”, principalmente italiani, francesi, inglesi ed americani”.

Ad aprile d’Annunzio stesso anticipava in un’intervista rilasciata ad un giornalista ungherese la nascita di questo soggetto, ma la costante carenza di soldi avrebbe di lì a poco segnato la fine del progetto. La Lega di Fiume si ridimensionò nel corso dell’estate 1920 a strumento della politica estera italiana, perdendosi in quelli che il dimissionario Kochnitzky definì “gli intrighi balcanici”. D’Annunzio d’ora in poi, infatti, avrebbe stretto contatti con croati, montenegrini, macedoni, ungheresi di Vojvodina ed albanesi del Kosovo con l’auspicio di poter abbattere il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, annettere all’Italia Fiume e creare una Dalmazia autonoma, caratterizzata da una Lega fra le sue città costiere e comunque orientata verso l’Italia, la quale avrebbe potuto farvi valere alcune servitù militari ed installarvi basi per la flotta. Così tanto fervore destò preoccupazione nel giovane ed incerto Stato jugoslavo, tanto più che nel frattempo negli Stati Uniti Wilson, maggior paladino delle rivendicazioni belgradesi, era stato sconfitto alle presidenziali, ed il Senato non aveva ratificato il Trattato di Pace.

A novembre 1920, tramite la mediazione delle rispettive ambasciate a Vienna (l’Italia non aveva ancora riconosciuto ufficialmente il nuovo assetto del regno dei Karageorgevic), si giunse pertanto al Trattato di Rapallo, il quale in Istria ricalcava il confine del Patto di Londra, erigeva Fiume a Città Libera (come Danzica), assegnava le isole di Cherso, Lussino, Pelagosa e Lagosta nonché l’enclave di Zara all’Italia ed alla Jugoslavia il resto della Dalmazia, in cui gli italiani avrebbero potuto optare per la cittadinanza italiana appunto. Nonostante in molti suggerissero a d’Annunzio di ritenersi soddisfatto in quanto Fiume non era stata annessa alla Jugoslavia come si paventava ed in Istria e Dalmazia comunque l’Italia aveva ottenuto riconoscimenti significativi, il Vate proseguì nella sua avventura, contrapponendosi all’esercito italiano che intendeva garantire il rispetto dei confini appena sanciti.

Il 13 novembre gli “uscocchi” fiumani occuparono le isole di Arbe e di Veglia, ma contestualmente si defilò l’Ammiraglio Enrico Millo, Governatore Militare della Dalmazia che fino ad allora aveva sostenuto al limite dell’insubordinazione le iniziative irredentiste provenienti dal Carnaro nei confronti del territorio dalmata. Il 24 dicembre le truppe italiane costrinsero a ripiegare su una linea difensiva più arretrata i legionari fiumani, il 26 un bombardamento navale e la ripresa dell’offensiva terrestre misero a dura prova i seguaci di d’Annunzio: il 28 alcuni notabili cittadini chiesero al Vate e ottennero di por fine alla resistenza, tanto più che in Italia la solidarietà nei confronti della loro causa si era ormai ridotta ai minimi termini.


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